Massiccio, in quella gabbia verde,
guizzavi veloce, nessuno ti perde.
Pantaloncini avvolti e stropicciati,
culotte di raso sui muscoli infiammati.
Le gambe, due tronchi pelosi e possenti,
sbattendo sui pali, lanciavi lamenti,
saturavi l’aria di un’aura di fuoco,
tra bestemmie sudate e un tricipite in gioco.
Sotto la rete, tra ciuffi arruffati,
le ragazze baffute coi gadget colorati,
tiravano dardi da balestre improvvisate,
con elastici rubati a mutande ricamate.
Cupido ubriaco, turgido in groppa,
cavalcava un somaro che lento galoppa,
tra le praterie delle schiene pelose,
spargendo frecce e illusioni amorose.
Quella notte finì uno a uno,
culi bianchi e neri, nessuno nessuno.
Ma vinse l’amore, purtroppo fu vano,
non bastò il cuore né il gesto più umano.
Da quando inventarono il Vidal,
la saponetta è un ricordo banale,
ma ora una pigna ci tiene impegnati,
col karaoke e i pupazzi agitati.
Sotto la pioggia ballano i fanti,
uniti da sbarre, rigidi e stanchi.
Lap dance rubata alle Folies Bergère,
in una notte che brucia il piacere.
“Ho paura di quelle scale infinite,”
mi dicesti lanciandoti nelle orbite,
di un tunnel buio, un divoratore,
di passi e anime senza clamore.
Si può essere un frutto dal doppio sapore,
una marionetta, un inganno d’amore,
un guanto che calza un pugno chiuso,
un clandestino dal mondo escluso.
Sull’isola nuda di Robinson Crusoe,
sei preda di Venerdì, schiavo feroce.
Con un sorriso da cannibale acceso,
cerca la pietra nel tuo buio sospeso.
Ogni dente, un bianco menhir,
nel ghigno tribale che fa impallidire.
E tu, secondo uomo in un Eden spogliato,
prima che Eva dal forno sia nato.
Una torta indigesta, inutile e finta,
capricci di dèi, fantasia dipinta.
Commenti