Non c’è poesia qui. Solo una faccia vuota, quel sorriso stampato che ti fissa come un manifesto sbiadito in un vicolo sporco. La guardi e ti chiedi: che cazzo hai da ridere? Ma non risponde. Barbie non parla, Barbie non pensa, Barbie galleggia in un mondo di sogni gonfiati e promesse da catalogo.
Ken? Ken è un perdente con le mutande fuse. Lo guardi e sai che non ha mai avuto una vera erezione in vita sua. Lui sta lì, immobile, con quel sorriso falso, come se avesse appena ricevuto una promozione in un’azienda dove nessuno lavora davvero. Si crede qualcuno, ma in realtà è solo l’accessorio di un accessorio, un pezzo di plastica messo lì per completare il quadro. Un cane di ceramica su una mensola Ikea.
Ma io li ho visti, sapete? Li ho visti davvero. Barbie e Ken, seduti in una cucina sporca, con le briciole sul tavolo e una bottiglia di vodka mezza vuota tra di loro. Lei si è tolta i tacchi, ma le sue gambe rimangono perfette, scolpite. Lui si tocca le mutande, come se volesse grattarsi, ma non può. Lei ride, ma non c’è niente di divertente. Lui guarda fuori dalla finestra e non vede niente.
“Cosa cazzo ci è successo?” dice lei, fissando il pavimento.
“Non lo so”, risponde lui, “ma penso che fosse già scritto. Non c’è scampo quando sei di plastica.”
E allora eccoli, due gusci vuoti che cercano di riempire il silenzio con parole che non significano nulla. Barbie sogna ancora di essere qualcosa di più – una CEO, una rockstar, un’astronauta. Ma sotto sotto sa che non conta niente, che tutto quello che ha è una faccia perfetta e un corpo che non invecchierà mai, ma che non ha mai vissuto davvero.
Ken vorrebbe solo sparire. Lo sa che non è niente, che non sarà mai niente. Non è un uomo, non è nemmeno una caricatura. È un’idea fallita. Ma non può nemmeno morire, perché i pezzi di plastica non si decompongono.
E noi? Noi li guardiamo e ridiamo. Perché è più facile così. È più facile credere che siano loro i ridicoli, che noi non abbiamo niente in comune con quei sorrisi vuoti. Ma la verità? La verità è che siamo tutti un po’ Barbie e un po’ Ken. Tutti a fingere, tutti a inseguire qualcosa che non c’è. Tutti con i nostri cuori di plastica e i nostri sogni di cartapesta.
Alla fine, Barbie si alza. Prende la bottiglia e ne beve un sorso lungo. Poi guarda Ken.
“Sei patetico”, dice.
“Lo so”, risponde lui.
E così finisce, come tutto finisce: non con un’esplosione, ma con un silenzio. Barbie se ne va. Ken rimane lì, immobile, fissando il muro. E noi, fuori da quella finestra, continuiamo a camminare. Sempre avanti, sempre in cerchio, con i nostri sorrisi di plastica e i nostri cuori estratti, lasciati da qualche parte, a brillare per nessuno.
E allora, una domanda rimane: chi cazzo siamo noi per giudicare Barbie e Ken?
Barbie si accende una sigaretta lunga come una domenica d’inverno e prende una sorsata dalla lattina di birra che tiene in mano. Ha perso il conteggio delle birre, ma non importa. È seduta sul bordo della Casa dei Sogni – ora più un rudere che un palazzo, con la vernice rosa che si scrosta dai muri e la jacuzzi trasformata in una vasca per rane. Guarda Ken con occhi socchiusi, le gambe accavallate e il vestito glitterato sporco di ketchup.
“Che guardi?” dice Barbie. Poi rutta. Forte. Un rutto che risuona nella stanza come una risata sguaiata alla fine di una barzelletta sporca.
Ken la osserva in silenzio. È seduto per terra, con le gambe incrociate, indossando un paio di pantaloncini fucsia che ormai gli stringono sui fianchi. Ha le mani in grembo, le dita intrecciate. È immobile, come una di quelle statue nei parchi, perfetto nella sua inutilità.
“Barbie...” inizia. La sua voce è un sussurro, un soffio di plastica. “Devo dirti una cosa.”
“Che c’è? Ti sei accorto che non hai un lavoro? O che hai la personalità di un asciugacapelli?” risponde lei, ridendo e soffiandosi il fumo della sigaretta dalle labbra.
“No, sul serio,” dice Ken. La guarda, poi abbassa gli occhi. Le sue mani iniziano a tremare. “Io... sono gay.”
Barbie scoppia a ridere. Ma non una risata sincera, di quelle che ti scappano dal cuore. È una risata di plastica, vuota, fatta per riempire il silenzio.
“Ma va? E chi non lo è in questo cazzo di mondo di plastica?” esclama, buttando il mozzicone sul pavimento. “Dai, Ken. Era chiaro. Voglio dire, hai più scarpe di me e passi più tempo a piastrarti i capelli che a fare qualsiasi altra cosa.”
Ken scuote la testa. “Non è questo il punto, Barbie. Io... Io ho vissuto tutta la mia vita fingendo di essere quello che non sono. Ho passato anni accanto a te, cercando di essere il tuo Ken perfetto, il tuo uomo ideale. Ma la verità è che non sono mai stato il tuo Ken. Non sono mai stato neanche mio. Sono sempre stato... niente.”
Barbie lo guarda per un attimo, il suo sorriso si spegne. “Wow,” dice, dopo un lungo silenzio. “Pensavo che fossi solo un idiota. Ma sei proprio un idiota triste.”
“Già.” Ken si passa una mano tra i capelli perfettamente pettinati. “Sono stanco, Barbie. Stanco di tutto questo. Di noi. Di me. Delle aspettative, delle mutande fuse, del mondo di plastica che ci circonda. Voglio... voglio essere reale. Voglio essere libero.”
Barbie si alza, barcollando leggermente. Si avvicina a lui, lo guarda dall’alto in basso e poi gli dà una pacca sulla spalla. “Sai una cosa, Ken? Sei un disastro. Ma almeno sei un disastro autentico. E questo, in un mondo come il nostro, è quasi rivoluzionario.”
Ken la guarda, gli occhi lucidi. “Grazie, Barbie.”
“Non ringraziarmi,” risponde lei, accendendo un’altra sigaretta. “Sono ancora una stronza.”
E così, mentre Barbie si mette a cantare una canzone stonata e Ken si accascia sul pavimento, qualcosa cambia. Non nel mondo – il mondo resta lo stesso. Ma forse, solo forse, quei due pezzi di plastica hanno trovato una scheggia di umanità. E in un mondo fatto di finzioni, è tutto ciò che puoi chiedere.
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