Pesca Lemon

  


LEI: Dai miei occhiali scuri il sole disegna un piccolo lampo; mastico la gomma come se stessi masticando le ali di un pollo, svogliata eppure figa. La piccola macchia di luce fa su e giù nell'ombra del muro di fronte: la osservo nel suo convulsare e non capisco cosa sia. Magari è un modo che hanno gli angeli per comunicare con me, penso, e attendo che il messaggio arrivi, fiduciosa. Ma non succede niente, solo uno stupido, noioso oscillare di uno stupido, noioso riflesso che non capisco ma col quale ho imparato a convivere negli ultimi cinque minuti.

Chissà che odore hanno i miei capelli dopo una giornata come questa. Nel dubbio me li annuso, portandomeli al naso con noncuranza, e ne mastico anche una ciocca. Aspetto di svoltare questo aperitivo, che qui siamo tutte donne in un mare di occhialuti, barbuti, grassi, che fissano con cupidigia i rari maschi e li intimoriscono.

Ma vieni qui, all'ombra del mio mascara waterproof, che ti riparo dalle mire di questi magrolini, pelosi che vorrebbero inglobarti nella loro new wave ricchiona. Per me, io vorrei solo mangiarti ma, per il momento, questo non te lo faccio capire, forse perché neanche io sono brava a capire le cose. Sul mio check-in c'è stampato "error 404: not found", non so che significhi, ma mi sento così internazionale.

LUI: Il sapore di questa Marlboro ha qualcosa di diverso dalle altre. Mi lascia un vuoto sotto la lingua; un solco dolce amaro. Ha il sapore di una sensazione, come della soddisfazione che c'è nell'aver imparato una nuova parola, sapendo che questo vuol dire che sai qualcosa di nuovo ma anche che ci sono cinquecentoquarantottomila parole che ancora non hai imparato, e quattrocentosessantasettemila almeno che quasi sicuramente non imparerai mai. Devo mangiare qualcosa. Sono solo le otto. Quelle patatine che portano nei piattini al tavolo sembrano avere più anni di me, e non me li porto poi così bene. Gli occhi grigi di quella ragazza non smettono di fissare la mia bocca da un paio di minuti buoni, ma non credo possa avere idea del conflitto Marlboro-lingua che è appena avvenuto sotto il sipario oscuro del mio palato. Oggi non mi sono fatto ancora una sega; non ce l'ho il coraggio per flirtare.

Il cameriere è frocio. Sculetta meglio di Valeria Marini al Bagaglino, ma senza le paillette rosse e un paio d'altri ovvi requisiti, non riesce ad attirare la mia attenzione come vorrebbe, o come almeno credo che voglia. Lascia scivolare il suo vassoietto sul tavolo come mi avesse portato un'incudine viaggiando per miglia e miglia, con la faccia di chi ha la presunzione di volersi sentir dire bravo. Non te lo dico bravo, stronzetto.

Non capisco perché d'inverno non nevica e poi a maggio il polline fiocca come nella più copiosamente rappresentata scenografia di 'A Christmas Carol'. Il bianco poi mi ha sempre messo agitazione; anche per questo bevo gin e non cappuccino.

LEI: Mi sta guardando e fuma. Fuma e posso chiedergli di accendere. E accendendo posso piegarmi un po', che si intraveda uno scampolo di reggiseno che tanto stasera prima di uscire dal negozio l'ho spalmato di Polident, l'adesivo per dentiere, così che la tetta sprizzi ma non sgusci via. Saperne una più del diavolo in fatto di bellezza è quello che mi fa sentire un po' vissuta, è una questione di proporzioni perfette: le mie misure sono 90-60-90, nel senso che mi mancano 90 millimetri di altezza, peso 60 chili e il mio quoziente intellettivo misurato all'ombra è 90. Insomma, ho tutti i numeri in regola per vantarmi di essere una modella.

Anzi, una ex modella. "Ex" di sicuro, visto che quello stronzo del moroso mi ha mollata ieri. Modella vedremo; mi avvicino con la sigaretta tra le mie labbra rosso geranio sul balcone di una zoccola, lo guardo e gli chiedo di accendere. Mi abbasso e lo guardo, lui prende l'accendino e mi guarda e mi spara un tenebroso "certo" che vale più di cento parole. E certe volte cento parole sono anche troppe, una mia amica aveva iniziato a tatuarsi il libro di Fabio Volo sulla coscia, in gotico, e si è dovuta fermare a 250 euro: circa 90 parole - come dico, cento parole sono troppe.

La mia mente lavora instancabile per cercare le mille domande che vorrei fargli, e pigre spuntano frasi spezzate a metà tra il gioco della bottiglia e 'nomi cose fiori città. Per andare sul sicuro intanto cerco il fuoco, e le nostre mani si sfiorano nel vento caldo, e la fiamma frigge una zanzara e anche un po' della mia frangetta. Lo guardo, con la sigaretta ancora spenta come una spada e lui mi guarda e io dico 'riproviamoci'. Lui ride, in fondo 'riproviamoci' è una buona frase di inizio ed anche, purtroppo, di fine.



LUI: Ah, eccoci qui. Anche 'sta domenica sono riuscito a scendere a lavare la macchina e a evitare di portare giù il cane. Ahah, Patrizietta è proprio arrabbiata, ahah. Ora mi metto proprio qui sotto la fontanella e, mentre insapono, mi guardo tutte le belle figone del quartiere che scendono a portare i cani, ahah. Oh, che pacchia la domenica! Guarda che bella schiuma che viene con 'sta spugna sintetica, quella del supermercato, manco a dirlo!

Eccola... sì, sì, ecco la prima figona che passa col cane, guarda che pantacollant rosso... L'ho vista da dietro, peccato! Chissà che faccia ha, meno male che c'ho la tuta larga stamattina, ahah. Ma poi chissenefrega della faccia? Aveva un cane che sembrava il mio, bah, sono tutti uguali 'sti bigol!

Adesso sciacquo bene, con calma però, mica devo fare in fretta, sennò torno presto e mi tocca portare il cane. Ah quanto mi piace sciacquare! Che lucentezza, eh vai! Guarda quella! È una ragazzina ed è secchetta... però meglio di niente. Adesso asciugo bene col panno che pure mi lustra la macchina... bene così! Oh, adesso la cera, così viene proprio bella lucida. Mannaggia, poche figone stamattina, mi sa che sono uscito troppo presto e ho quasi finito... Ok, ho finito! Tutto lucente e pulito, adesso rientro. - Patrizietta! Patriziettaaaa, ma dove sei andata col cane così presto? Ma dove vai con quei pantacollant rossi tutti aderenti? Aho!!!

LEI: Certo che anche qui a Milano girano dei coattoni che non sembra neanche di essere all'aperitivo. Questo poi che lava la macchina davanti all'ATM, tra la lingua che parla e il cane mi sembra veramente adatto a Chinatown, che tra l'altro è dietro l'angolo. Ora lava pure il cane, e capisco: magari vuole venderlo al ristorante cinese per la cena all-you-can-eat di stasera.

Ecco, ho trovato un argomento: gli sbuffo la sigaretta negli occhi e gli dico che in Cina fanno il sushi di cane. Lui mi guarda con gli occhi rossi e luccicanti, non so se si è commosso per quei cinesi senza cuore che gastronomizzano il migliore amico dell'uomo, o per il fumo negli occhi. Forse l'ho colpito con la mia conoscenza di cucina; ho seguito per anni La Prova del Cuoco, servirà a qualcosa questa cultura.

Certo che il romano che sta fischiando dietro a quella specie di strappona non è niente male, però il tenebroso che ho di fronte pure non scherza. Ha un po' il fiato che sembra debba vomitare un posacenere, chissà che lingua felpata che nasconde tra quelle labbra di calcestruzzo.

Brontola il cielo sulla mia cotonatura, gocce acide vogliono erodere la pianura di fondotinta, piange la camicetta di poco prezzo che non vuole stingersi, ed i miei sogni di brava ragazza premono per uscire dalla mia borsetta qualunque. Che personaggio famoso vorresti essere? Io da bambina volevo essere Ariel la Sirenetta, ma poi la maturità della pubertà mi ha fatto capire che se l'angelo esaudiva il mio desiderio non avrei più potuto aprire le gambe, e mi sono fermata lì, all'incrocio tra Rihanna, Tatangelo e Paris Hilton.

LUI: Mi perdo nel cliché del calciatore. I calciatori scopano, almeno. Io volevo fare l'attaccante, ma sono sempre stato una pippa a calcio. A calcetto già si poteva ragionare, e poi cinque stronzi sono meglio che undici stronzi. È incredibile quanto il tempo scorra veloce nella mente, quanti pensieri si riescano a formulare in pochi secondi, e come tutto questo sia collegato così male con l'apparecchio bocca. Se potessi dire davvero tutto ciò che penso, non nel senso di libertà ma nel senso di abilità di coordinare alla stessa velocità cervello e bocca, beh, se potessi verrebbe più o meno così: 'Il bottone di quella camicetta sta per saltare; fallo saltare bambina. Sta blaterando inutili cazzate su un cartone Disney. Quando me la dai? Me la dai? Non mi sono fatto una sega. Sono un coglione. Forse è meglio se non me la dai. Ma io la vorrei; me la dai?'

Ci serve qualcosa di forte (oppure non me la darà mai). Prendo un altro gin, speranzoso che mi segua in questo mio tuffo superalcolico, che prenda da me il cattivo esempio, che scelga il male perché l'ho fatto anche io. Cinquanta e cinquanta. Non so cosa farà, ma il cocktail che scegli dice quasi tutta la verità su chi sei. Io bevo gin liscio perché c'è poco da dire; sono quasi tutto quello che mi si legge in faccia. Ma quando lei prende un vodka pesca lemon, ecco, se quando lei avesse preso un vodka pesca lemon, la mia voce e il mio cervello fossero stati perfettamente collegati, sarebbe venuto più o meno così: 'Triste. Sfigata. Ma è davvero un cocktail? Un terzo alcool e due terzi piscio. Me la dai? No, forse non la voglio più. Ma sì che la voglio. Me la dai? Se mi viene duro con una deficiente che beve pesca lemon, posso scopare anche i muri.' Ma soprattutto se lei scopa me bevendo solo pesca lemon, allora non avrà giustificazioni domani, allora è troia per davvero.

LEI: Non si vede che lui mi abbraccia ma si capisce che la fotografia è tagliata a metà.

Sono una ragazza dai principi semplici e prendo un pesca lemon. Lui beve gin liscio, hanno detto che fa venire i denti neri a lungo andare, è il tavernello degli inglesi. Intanto il romano lava la macchina, lava il cane, tocca culi e grida che anche lui vuole entrare nella storia. Dal pantalone della tuta fa capolino una solitaria erezione e perde il guinzaglio e il cane scappa e cerca di copulare con la gamba di tale Patrizietta. Mi fa ridere questa scena, rido e guardo lui, così si crede coinvolto, e crede che m'interessi alle sue storie senza sale, di una carriera da calciatore fallito. Ma io guardo con la coda dell'occhio il romano col cane e sorrido a mille denti e sorvolo sulle sue parole, tanto lo so come finirà stasera, sempre che non gli si ammosci dal troppo gin. A me il pesca lemon mi ricorda il mandarinetto Isolabella, che è la versione povera del Cointreau, che a sua volta discende dal rosolio: in due o tre bottiglie l'evoluzione alcolica di una genìa di zoccole. Se continua a guardarmi così le tette finirà per farmi sciogliere il Cukident e poi sì che ci divertiamo! Voglio che mi dica che non ha la ragazza, se no non se ne fa niente. Va bene la Mini Minor verde d'epoca, va bene il calcio, la vita maledetta e i pensieri troppo pesanti che rimangono dentro; ma qui siamo alla fiera del "vorrei ma non posso" e se i pensieri pesano, dovrebbe provare a cagarli invece che a comunicarli, magari tagliare il gin liscio con il Guttalax.

Chissà da quanto tempo non scopa, che tra gin e sigarette questo ha l'aria di finire subito. Mina diceva "l'importante è finire" ma intendeva l'importante è venire: e quando questo ha traguardato il suo amichetto scommetto che si accenderà una sigaretta, invece che dedicarsi diligentemente al mio sorriso verticale, senza filtro. Comunque se ha la ragazza non ce n'è. Punto.



LUI: È un giovedì inutile come i precedenti cinquanta giovedì. Il sushi non lo sopporto più. I miei amici: non li sopporto più. Uscire da solo per scopare sembrava una grande idea finché non avevo quelle tette a fissarmi, a spaesarmi. Mi fa pensare a una pianta carnivora. Mi guarda con l'aria di chi sa che può farti male. Ma lei per male intende bene. Non so come ci si comporta davvero con una di cui già sai che mai ti importerà, ma quel che è certo è che adesso le sembro più checca del cameriere, e questo non può succedere a me. Chiedo il conto; questo forse è un buon momento per attaccare. Le poggio una mano su una coscia: le calze in microfibra a maggio hanno un effetto anestetico sulle mie dita; le sento formicolare mentre lei poggia una mano sulla mia. Non ha più voglia di aspettare; sento le sue cosce tremare verso l'interno, come quelle di una bambinetta che sta per farsi la pipì sotto e cerca ad ogni costo di trattenerla. Ma lei non vuole trattenersi. Così fa quello che io non ho fatto ancora: la mossa. Mi chiede se ho una donna; non voglio darle idea d'essere libero, sarebbe come fare già una promessa per una che te lo chiede con quel tono. Non voglio nemmeno dirle di essere impegnato, e non solo perché non è vero. Le comunico, così, che 'sono in un periodo strano, fumo, bevo troppo e non mi va l'innamoramento umano' (detto fra noi, cito i Baustelle, perché ho capito che di musica non capisce un cazzo da come tamburellava pimpante con le dita sul tavolino quando da dentro al bar son venute fuori le note dell'ultima commercialata del momento; insomma, i Baustelle non li conosce). Lei si lascia affascinare da questa mia risposta; s'immagina che io sia uno profondo perché le ho dato una risposta in rima. Ma non sono parole mie e non sono più profondo di quanto non potrò arrivare dentro di lei. Ecco, quello è il mio limite.

LEI: Non riesco a categorizzarlo, se è più un tipo Apple o Android, un tipo Tim oppure un tipo Vodafone. Dai cellulari si vede quanti soldi hanno, e citare nomi di complessi rock sconosciuti sinceramente non attacca, specie se quando si cimenta con l'inglese o il francese ci scappa il gioppino di nocciolina che dalla sua bocca schifosamente atterra sul mio seno.

Mentre lui mi immagina nuda, non sapendo che ho una tuta di spandex che sembro la mummia, io vedo lui, abitante del pianeta Marlboro, dove i prati sono verdi strisciati di bianco, gli alberi sono rettangolari con delle reti e le pietre sono leggere e sferiche; tutti gli uomini sono calciatori e sono fatti di un impasto di motore e ormoni e cazzo e tatuaggi. Questi ultimi si formano spontaneamente e sono cangianti e compongono mille e mille frasi e disegni in lingue e culture misteriosamente senza senso. Non so se lo fanno entrare a questo qua, sul pianeta Marlboro.

Lui sembra Ramazzotti ma non Eros, quell'altro, quello dell'amaro... con quella faccina lì che, malgrado l'abbronzatura, sembra dire "anche oggi, si chiava domani". Ti rimanderei nella tua baita Ikea, dove di sicuro nascondi la tua ragazza facendomi credere che sia una ex, ma stasera non ho sigarette, fumerò le tue e poi vedremo. Nel pianeta Marlboro scorrono fiumi di ceretta dove dopo una nuotata tutte le ragazze escono senza un pelo superfluo, e c'è un posto dove fanno il tiramisù di pavesini, che dopo due porzioni il seno cresce di una misura, si alza e punta verso le stelle. Ma questo lui non lo capirà mai, lo guardo e penso che se scopro che ha la ragazza non gliela do manco a morire. Anche se mi ha baciata.

LUI: Giochi di parole del cazzo: questa non sa un cazzo di me e saprà solo qualcosa del mio cazzo alla fine, o forse la sua bocca saprà del mio cazzo, ma non fa alcuna differenza. Non ce l'ho una ragazza, ma lei non può saperlo e non può credermi perché la barba nasconde i miei cedimenti migliori, le mie uniche rughe d'espressione che facciano trapelare dalla mia pelle quel minimo d'umanità necessaria alla vita civile. Non ce l'ho una ragazza; non ce l'ho più. Ma tu che cazzo ne sai? Io già ti odio, quasi quanto odio lei. Che ne sai del perché un uomo debba rifugiarsi sul pianeta gin o sul pianeta Marlboro? Io non so nemmeno come mi sono ritrovato sul pianeta scopate occasionali; non ce l'ho la residenza qui e ogni volta che scendo alla piazzola arrivi sento di aver pagato un pedaggio con la mia sdrucita coscienza; ne lascio un brandello a ogni dogana, me ne resta poca ormai e ho come la sensazione che stasera lei finirà di strapparmela un po' alla volta, come si fa con la carta dell'ultimo lecca-lecca panna e fragola, pregustandosi, già in quel gesto indelicato di scartarlo dallo stecco in su, il sapore zuccherino che ti resterà sulle labbra. Vuoi entrare davvero qui dentro? Ti dirò di rivestirti prima che tu possa stiracchiarti fra le mie lenzuola, sarò gentile e se vorrai ti riporterò al bar o a casa o dove mi chiederai, anche se nella mia mente ho già scelto per te il binario fanculo. Sei carina, ma sei carina. Carina è banale. Il pesca lemon è banale. Non ce l'ho una ragazza, ma se ne avessi una berrebbe Negroni, e nel Negroni il gin c'è: e questo non è un caso. Non ce l'ho una ragazza e va bene, facciamo questa cosa; te li sfoggio trentadue denti di sorriso, lo faccio questo sforzo. Sono io che voglio scopare e non sto facendo un favore a nessuno, al massimo un torto a qualcuno, ma qualcuno che è seppellito nella più profonda fossa del mio spirito, e non riuscirà certo ora a reclamare la sua purezza.

L'ALTRA LEI: Ehi... ehi, mi sentite? Sono qui sepolta chiusa in un cassetto tra calze e mutande di lui. Sono la sua ragazza, o ero la sua ragazza, questo non l'ho ancora capito. Comunque vi parlo dalla mia foto incorniciata, dato che in questa storia siete tutti presi a raccontare la banalità di Lui, e di una pseudo-sciampista che avete avuto il coraggio di eleggere a "Lei".

Eh no, questo mica mi sta bene! Allora io faccio parlare la mia fotografia, che l'infame ha nascosto perché non ha il coraggio di buttarla via: sa che prima o poi ricapiterò a tiro nella sua stanza, tornerò come un boomerang e lui pensa che l'unico modo di non prendere una legnata in testa è di tirare tatticamente fuori questa foto per far vedere che tutto è come prima che niente è mai cambiato che mai ha smesso di pensarmi. Tanto la legnata gliela do lo stesso, e più di una.

Intanto io aspetto e mi faccio intrattenere da questo romano che lava la macchina, è un po' grezzo e somiglia a Ninetto Davoli; gli avevo dato il cane da tenere e lui se l'è fatto scappare... sì, ebbene, il cane sushi è il mio cane. Mi volevate rubare anche quello, facendolo finire nella storia di Lei ma io non ci sto. Vada per l'anonimo pesca lemon; vada per aperitivo, bio presto e noccioline ma il cane sushi non si tocca. Vi siete messi d'accordo per scrivere della banalità del banale e non siete stati capaci di tirare fuori niente altro che gli incubi repressi di una sciampista con le tette dopate. Azz ho finito le righe ma ritornerò e saranno dolori, altro che pesca lemon!



LUI: Male male, adesso sì che siamo nel banale. Non è mica l'autoscontro, tanto meno la pesca fortunata. Ma non siamo al parco giochi qui? Devo aver sbagliato; spesso mi capita di pensarmi in qualche varco sconosciuto, una dimensione tranquilla in cui i bambini non urlano e le donne non sono tutte troie. Questa qui sorride eppure io non ho detto niente di divertente. Banale, come il suono di cicale; ora si sente forte perché è maggio. Io sono stanco, tu no? Il cameriere gay ha finito il turno e probabilmente persino a lui questa serata ha riservato un finale migliore di quello che toccherà a me. Ce ne andiamo insieme? Vado via da solo? Dopotutto siamo qui da un tot. Oltretutto lei ci sta. Soprattutto lei ci sta. Le indico la macchina, andiamo a farci un giro? Non ho voglia di farmi un giro, soltanto di farmi lei. Fa sì sì con la testa; è finita l'agonia. Vuole sapere dove la porto; indovina un po'? Casa mia è proprio qui dietro, abito in viale Banale, dove tutti bevono pesca lemon e si accontentano degli amori in scatola, qualcuno addirittura di quelli surgelati. Io prima andavo al mercato tutte le mattine, alla ricerca del fresco, del nuovo; sotto i miei denti non ce le volevo queste carni insipide che trasudano pesca lemon. Ma stasera ho fame, e tu finisci a centottanta nel mio microonde; occasionale, banale, stop.

Mentre ci avviamo verso la macchina, il cielo si tinge di un rosso innaturale, come se il sole stesse bruciando l'orizzonte. Un vento caldo e secco inizia a soffiare, sollevando polvere e detriti. Le strade si svuotano rapidamente, le persone corrono a cercare riparo. Le sirene iniziano a ululare in lontananza, un suono che si mescola con il ruggito crescente del vento.

Arriviamo alla macchina e lei si ferma, guardando il cielo con occhi spalancati. "Che sta succedendo?" chiede, la voce tremante. Io non rispondo, perché non ho una risposta. Il mondo sembra sul punto di collassare, e tutto ciò che posso pensare è che questa notte potrebbe essere l'ultima. Accendo il motore e ci dirigiamo verso casa mia, mentre il cielo continua a bruciare e il vento ulula come un presagio di fine.

Mentre guidiamo, ci imbattiamo nella sfilata del Gay Pride. La strada è bloccata da una folla colorata e festosa, bandiere arcobaleno sventolano ovunque. La musica è alta, e la gente balla e canta, ignara del caos che si sta scatenando sopra di loro. Cerco di fare inversione, ma è troppo tardi. Un gruppo di indiani Arrapao, vestiti con piume e pitture di guerra, ci circonda. Sono armati di archi e frecce, e i loro occhi brillano di una strana luce.

"Scendete dalla macchina!" ordina uno di loro, puntando una freccia verso di noi. Non abbiamo scelta. Usciamo dall'auto e veniamo legati e portati via. La folla del Gay Pride continua a festeggiare, ignara del nostro destino. Siamo trascinati in un vicolo buio, dove gli indiani Arrapao ci guardano con sguardi famelici.

"Benvenuti nel nostro mondo," dice il capo, un sorriso amarissimo sul volto. "Qui, le regole sono diverse. Qui, siete nostri."

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