Fai stare zitto quel DJ e porta un cazzo di chinotto al tizio qui vicino, sbrigati, non farmi perdere la pazienza.
Eravamo pochi, ma almeno eravamo uomini veri, con la roba giusta tra le gambe. E non parlo di sentimenti. Parlo di quello che conta davvero.
Due o tre decenni fa eravamo alla corte di Enrico VIII, al concerto dei tre tenori. Stanislao, Domingo, Cristoforo. Una specie di arpa che suonava il terzo, aveva il manico di gomma, come una cazzata, e le corde di nylon, che sembravano un errore cosmico. Tutti elegantissimi, brillanti come palloni da calcio al neon, tranne uno: un arabo che se ne stava lì con una striscia di tela sulla testa.
Lo chiamai: “Achille, vieni qua.” Quello si avvicina, mentre il solista intonava una specie di urlo straziante.
“Mostraci il tallone, guaglio’,” gli dissi. Ma niente. Non capiva.
Cercavamo il punto giusto. Il tallone di Achille. Era una roba seria. Un esperimento scientifico, mica uno scherzo da bar.
Il direttore, poi, si girò. Era una vecchia, o almeno sembrava, che dirigeva quella banda. Cristoforo, il terzo tenore, saliva sul podio a intonare una mazurca che aveva l’aria di un’agonia.
Il disappunto cresceva. Il tempo volava via, più veloce che mai. C'era l’odore di cotognata nell’aria. Un po' come il tempo delle mele, ma qui le mele erano tutte andate a male.
Non finiva mai quell’assolo, e quel giapponese—Achille, sì—non mollava. Non si vedeva quel cazzo di tallone. E il conto, ovviamente, cresceva.
Poi arrivò lui. Vistoso. Cappotto di pelle nera e lucida, pantaloni beige di cammello, scarpe con fibbia d’argento.
Argento vero.
Era Anfred. Ma lo chiamammo subito Manfred, perché M come Marcello e il resto come… che cazzo ne so, ma sembrava giusto. Un tipo tosto, di quelli che sembrano usciti da un film di guerra.
Lo aveva creato un mio amico, un dottore, dopo che la moglie era morta. Una faccenda di quel tipo. Non che fosse mai stato un uomo fortunato in amore.
Il dottore, si chiamava Catetere. Lo aveva fatto con la roba migliore: pelle di 127, culo di alcantara, capelli di metallo e… pisello di platino.
“Ma come, Catetere?” gli chiesi, “Perché il pisello di platino?”
Lui mi rispose: “L’ho fatto di platino perché è piccolo e così non spendo molto materiale.”
E così ce lo portammo a casa.
Un vero risolutore.
Gigante.
Un vendicatore impietoso (se lo guardavi da davanti).
Un amante insaziabile (se lo guardavi da dietro).
Giralo come ti pare, era una meraviglia.
Prese il giapponese e lo riempì di calci nel culo. Un altro tallone di Achille? Fanculo. Lo colpiva dove faceva più male. Quello piangeva come una bambina, tutto giallo e pisciante. Si era fatto la pipì addosso.
Manfred lo sistemò. Noi vendicammo Pirl Arbor.
E i tenori? I tenori continuavano a cantare, ma erano troppo presi dalle loro stronzate, uno che cantava con l’altro, e via così, ma non finiva mai.
Era una scena ridicola. Il tamburo batteva come una sentenza, e tutto il teatro sembrava fuori di testa.
“Giovane,” gli dissi, “porti o non porti quel cazzo di chinotto ai miei ospiti?”
Ma il cammarero, appena sentì la parola Manfred, andò nel panico. Le sue emorroidi cedettero e quasi si fece sotto. In un lampo portò quattro bicchieri pieni di chinotto, senza nemmeno guardarsi.
Finalmente.
E quel giapponese? Se lo scolò tutto d’un fiato, e il bicchiere si ritrovò tutto trasparente, come il suo cervello. Ma il cammarero aveva le mani coperte di merda. Quella zona del Cilento è come un altro pianeta, pieno di puzza e poca educazione.
Commenti