Caduto dal cielo,
bagnato di pioggia,
destinato dal marketing sovrano
ai mondi aperti
di camerette di bambini
dal doppio cognome,
mobiletti in legno chiaro;
stagione d'autunno,
opulenta di vernice e diossina.
Luci lontane,
prima dei monti senza neve,
il babbo e la mamma qui piantarono
il cartello della brianza denuclearizzata,
lo stesso all'ombra del quale
crescono i nostri figli.
Com'è diventato grande,
questo cartello.
Cicciobello Negro sono io,
legato a un trono di polistirolo,
e sul mio passaporto la stella
per proseguire la scalata al mondo
iniziata dal fratellino biondo.
Ci insegnarono a piangere
quando le nostre piccole mamme
ci privavano sadicamente del ciuccio.
Io attaccavo con le lamentazioni
quando me lo rimettevano.
Lacrime senza rumore,
non so se di plastica o acqua,
i miei occhioni lucidi
sotto quei riccioloni ispidi
che nessun bimbo riuscirà mai a pettinare.
Notti intere dei corti giorni dopo la befana,
io piangevo;
cosa ne sai di quello che fa battere il mio cuore.
Difetto di fabbricazione, dissero,
ma io piangevo perché ero
negro.
Mamme ancora fumanti di sessantotto,
nostrano come un panino con la salsiccia
mangiato in macchina,
sotto il tetto rosso del McDonald's, incombente,
pesante e inutile come il nostro futuro.
Mamme...
lo sguardo ipocritamente dolce di tutti voi
mi evitava nel negozio di giocattoli,
con quella egoista certezza che altri,
indefiniti,
si sarebbero presi cura di me.
Altre bimbe mi avrebbero adottato,
ma non le vostre,
destinate al fratellino biondo,
germanico, florido, flaccido
e micropenico.
Avevo il cuore duro allora,
ero più giovane,
la prima volta che una bambina mi tolse il ciuccio
una lacrima bianca rigò le mie guance nere e cicciotte
e, mentre un lampo di cretineria misto a terrore
illuminava gli occhi borghesi della mamma.
Un gonfiore tra le gambe di quel mio pagliaccetto,
un tremore misto a curiosa voglia,
e la donna tirò via quella figliolina.
E da allora neanche le diafane luci dei neon
poterono, pur per un istante solo,
sciogliere un po' della mia cioccolata,
scoprendo un ricciolo color dell'oro.
O mamma che non mi ha mai comprato,
la tua bambina è una figa di legno
che parla al cellulare ad alta voce,
paga di un lavoro a basso costo
e di un master in cazzi duri.
O tu che non hai mai giocato con me,
non potrai mai sapere
che inventai la musica rap
e giro tra culi appesantiti da brillanti e catene,
vivo da tempo in una casetta
in cima al ghiacciaio
dell'indifferenza umana.
Non piango più,
ma ho sempre il ciuccio in bocca.
Perché se me lo tolgo,
mi cago il cazzo.
Che vuoi fare, mio amore sconosciuto,
si muore un po'
per poter vivere.
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