Gineceo

Con un tocco leggero all’interruttore accendo le luci dello stand, riportando colore e silenzio. Davanti alla vetrina lucente, appena pulita, si riflette l’immagine di qualcosa che sono sicura di aver lucidato di recente. 

Mi giro lentamente verso la sala ampia e distesa, così grande da sembrare spalmata su un immenso lastricato di marmo che risplende nella luce del primo mattino. Di fronte a me, lo stand rivale si sta svegliando, mentre una voce metallica dall’altoparlante chiama il signor Abu Amer, pregandolo di presentarsi con urgenza all’uscita numero sei.

Una coppia di giapponesi si avvicina: lui sembra un John Lennon deformato dopo un crash test bionico, lei indossa un elegante tailleur senza calze, mostrando gambe corte e bianchicce, il cui unico fattore vagamente armonico è il cigolio delle ginocchia ad ogni passo. Niente a che vedere con le mie lunghe, lunghissime gambe, appena scoperte dalla mini, che si specchiavano poco fa nella vetrina.

Si fermano al mio stand, osservano, illuminati dalla luce verde e nera, come se attendessero che io, divina sacerdotessa, portassi la novella del dio Verde dei telefonini. Temporeggio, mentre la giapponese indossa dei sandali piatti con laccetti che assicurano la suola a piedi tonde, su cui si ergono ditini conici disposti uniformemente a raggiera.

Faccio finta di essere impegnata, controllo i depliant, ne faccio un mucchietto, tutti uguali, affastellati e pareggiati. Come pareggio io i depliant, non c’è nessuno, credetemi. 

Il giapponese parla con la sua compagna, emettendo suoni grevi e vibranti che mi ricordano l’eco di una scoreggia su carta di caramella Rossana. Osservano intensamente i depliant, trepidi in attesa che consegni loro uno di quei sintetici vangeli colorati. Li metto via sotto il bancone, sperando che così gli passi la voglia di chiedere.

Passa un uomo in completo grigio, cravatta e valigetta di pelle; sicuramente ricco. Si ferma allo stand di fronte, riscaldato dalle alogene rosse come l’anima di un bordello, ammaliato da una donna che gli si avvicina con gentilezze, allisciandogli l’anima mentre impugna l’ultimo modello di cellulare come uno scettro vibrante.

Le due mosche morte del Sol Levante sono ancora lì; lui sembra un gigantesco culo ottenuto saldando insieme due enormi uova di Pasqua rosa, montate su un corpo di bambolotto dalle gambe arcuate, installate su ciabatte di pelle moscia, con strap in velcro. 

Alice in Wonderland, aiutami.

Passa un nonno pulito e ordinato, con un bambino tutto lindo al seguito, calzoncini corti e calzettine al polpaccio, mentre sandaletti con gli occhi completano il quadro. Lo tiene per mano e, camminando, colpisce un qualcosa per terra: un mezzo bottone automatico. Non è suo, ma si ferma lo stesso, piegandosi a vedere, proprio di fronte al mio sgabello, mentre il bambino continua a tirare un pochino.

È di fronte a me; per allenarmi, accavallo le gambe e gli sparo un raggio di seduzione proprio in mezzo agli occhi, paralizzandolo. Il bambino tira ancora, il nonno barcolla ipnotizzato, urta i giapponesi mandandoli, quasi come birilli, in buca all’altro stand. 

Godo, ma simulo indifferenza; vanno via tutti, finalmente. Rimaniamo io, lei e i due stand. Puttana, oggi hai la mini di plastica trasparente e scarpe alte con la punta acuminata; ma cara, dovresti comprartene un altro paio, perché la tua punta è ammaccata, quasi piegata in due dall’usura, e sembra la proboscide moscia di un’iguana ferita a morte. La odio.

Medito che stavolta la trance mi ha portato quel che volevo, ne ho la conferma alzando lo sguardo ed incontrando la faccia sorridente di un ragazzo con i capelli gialli tinti ricci, che mi fa:

“Cià bella.”

Allora è incredibile!, esclamo dentro di me, e corro indietro sino alla punta per infilarmi dentro il karma per tutta la sua lunghezza. Arrivata finalmente all’estremità di quella ringhiera, chi trovo? Lei, quella della Tim, che ha materializzato la sua visione, sconfinando nella mia. Un enorme africano, con davanti un qualcosa, come se gli avessero montato un quadrifoglio, una ruota di diligenza, senza cerchione, con i raggi diretti per tutti i punti cardinali. Una enorme raggiera di zufoli, una mitragliatrice di organo a canne, ruotante, e lei e le altre amiche sue, infilate per bene, trapanate una per una, andavano su e giù, mentre lui se la rideva senza emettere suono, fumando un sigaro cubano, nella cui nuvoletta azzurrognola tutte erano immerse, un fumoso bagno di lussuria, che giovava a tutte, tranne che a me.

A me intossicava.

Iniziai a starnutire. Manco a dirlo, per me non c’era posto, un attimo di rabbia mi rovina la concentrazione, ma il ricordo del mio biscione chilometrico mi riporta in carreggiata. Lo stringo, ma si è trasformato in un sorbetto sciolto. Corro indietro, ma al posto del biondo muscoloso c’è un ranocchio. Mi guarda perplesso. Sono impietrita, medito. Mi chino, lo bacio, come nella pubblicità, ma quello non si trasforma, rimane un rospo e mi fa uno scherzo, mentre tutte quelle ragazze si burlano di me.

Mi si alza la temperatura di un paio di gradi, basta un nulla, e il mio pantacollant yogi di sintesi si fonde, cristallizzando le fibre, e rimango incastrata in una camicia al carbonio, e non riesco a liberarmi. Mentre le altre si stanno già sciogliendo e sgranchendo, il maestro mi guarda con sufficienza, fa un cenno mistico e il bidello mi porta via, attorcigliata come un granchio, mentre le allieve predilette fanno capannello, divertendosi.

Questo bidello puzza, il fiato gli sa di medicina di dentista shakerata. Vorrebbe approfittare della mia incapacità di muovermi, mi gira e mi rigira, guardando con attenzione, mentre io grido, ma non trova nulla. Finalmente trova una fessura, ma è così tirata che non ci entra nemmeno uno stuzzicadenti; in compenso ci soffia su, e vibra, facendo il verso dell'uccello.

Quello mi mette giù, va verso il mio borsone, tira fuori il portafogli, prende venticinquemilalire e le porta in obolo al maestro. Poi ritorna sbuffando, mi prende a peso e mi lascia sotto la doccia. Apre l’acqua. Fredda.

Ma questa me la pagano. Ecco che arriva un bel ragazzo, jeans strettissimi blu scuro, camicia in tinta, uno e novanta bruno, occhiali da sole neri, pelle abbronzata, gli sorrido, ignorando il rumore della massa, e seduta dalla mia postazione, dal mio sgabello alto un metro e mezzo, appollaiata ad altezza occhi, gli lancio un sorriso, accavallando le gambe.

Ho le calze nere coi disegni che si decifrano solo se ci si avvicina e si guarda intensamente.

Irresistibile.

Ho i rinforzi in fibra di vetro e caucciù che modellano e tonificano: vitino di vespa e chiappe da sogno.

Irresistibile.

Ho la mini di pelle rigida plastificata al silicone, a campana, che garantisce una perfetta ventilazione.

Irresistibile.

Ho il maglione che mi strizza, convogliando tutta l’esuberanza in un gigantesco bacino artificiale.

Irresistibile.

Quella di fronte si siede sullo sgabello, in posizione attrattiva, mentre il ragazzo passa. Accavalla le gambe e lancia anche lei un sorriso, incrociando le braccia. A questo punto sono costretta ad attivare la mia arma segreta, miro bene e sparo il sorriso che attrae il bel passeggero verso di me, finalmente.

Mi sono messa nelle mutande un evidenziatore giapponese comprato al duty-free. E’ nel mio stand, finalmente, ci parlo, quella lì, invidiosa, fa l’indifferente e sorride qua e là. Me lo tengo ben stretto, è mio ormai, gli do il depliant, gli spiego l’offerta, colmando con sorrisi gli inevitabili gap di natura culturale.

Lui fa delle battutine che riesco a capire, non mi fanno ridere, ma rido moltissimo, perché è mio e deve apprezzare la mia intelligenza. E’ simpatico, davvero, ma sono ancora sulla linea chiusa, e decido di tirarmela ancora un pochino, lucidandola per bene. Gli prendo un cellulare; gliene prendo un altro, mi alzo, per il clou, sento il calore del suo sguardo che mi avvolge.

Finalmente posso sciogliermi, è il momento giusto per assaporare la vittoria della seduzione femminile, muovo il battente della vetrina, per godermi, non vista, il riflesso del mio amico, ma... Quella ragazza ha approfittato della mia distrazione per invadere il mio territorio. Mi ha fottuto, ma adesso la sistemo io, mi alzo brandendo il cellulare, avanzo minacciosa, quand’ecco che l’altoparlante annuncia il volo.

Il bel ragazzo scompare, e ci lascia tutte quante deluse. Non mi rimane da far altro che guardare quella che ha invaso la mia zona. “Cià bella” mi fa, toccandomi col dito, poi se ne torna al suo posto. Quella mi ha attaccato qualcosa sulla maglietta, come una gelatina blu. Dallo stand della Tim qualcuno se la ride, la guardo, mica ho paura, e le lancio un sorrisino preconfezionato, appena scongelato nel microonde della mia anima.

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