La polizia arriverá tardi

 Dormivo vicino a lei, il letto a filo della finestra che guardava la notte. La città, accesa, ci faceva uno strano dispetto con quelle luci gialle che scintillavano dai palazzi, mentre la luna, ormai lontana, non aveva voglia di farsi vedere. Era buio, ma quel buio era rotto solo dalle stelle artificiali di una metropoli che non dorme mai. Eravamo in alto, e il respiro dell'aria fredda della notte ci dava una falsa tranquillità, come se fossimo a un passo dalla fuga.

Lei, con la maglietta sola, e la coperta leggera che dividevamo. Non era la nostra stanza, ma sembrava casa. C’era qualcosa di familiare in quell’intimità rubata. La mia mano, che scivolava sotto la coperta, cercava un qualcosa che il sogno faceva diventare una promessa di piacere.

Poi, il rumore. Un boato secco, il suono della porta che si sfonda. Erano dentro. Tre uomini, venuti a prendersi tutto. Erano arabi, ma poco importava. Mia madre urlava dalla cucina, disperata e consapevole, gridava: "Prendete tutto, ma lasciateci vivere." La porta dell’ingresso non c’era più, c'era solo un varco, e loro, con i mitra in mano, entravano come se fosse tutto già scritto.

Io avevo la testa a un’altra parte, ma adesso no. Lì, nella stanza, capivo che la cassaforte sulla parete era l’unica cosa che importava. Non potevano prenderla, no. E non avrei permesso che prendessero lei. Lei era nuda, tremava, ma non gridava. Non avevo tempo per pensarci. Non era il momento per pensarci. Dovevo alzarmi, farmi notare il meno possibile.

Non ci puntavano le armi addosso. Non ancora. Ma ci guardavano, e c’era qualcosa nei loro occhi che sapeva di morte imminente. La cassaforte, le chiavi. Le chiavi erano in vista, ma non le prendevano. Non ancora. E io lì, fermo, a pensare che ogni respiro poteva essere l’ultimo.

Poi l’arabo con il mitra. Mi guardava, ma non mi diceva niente. Sapevo cosa cercava da me, ma non avevo le risposte. Io ero in piedi, le mani alzate, ma le mie gambe tremavano. Lui piangeva, ma non era per noi, piangeva per lui. Non aveva mai voluto essere lì, lo sapevo. Gli avevano messo una mitragliatrice in mano e lui tremava come un bambino. La sua paura la vedevo bene, era la stessa paura che avevo io, ma nessuno dei due voleva ammetterlo.

Poi il ragazzo aveva paura di premere il grilletto, e la mitragliatrice gli sfuggiva dalle mani. Lo guardavo, lo sentivo piangere, e non potevo fare niente. Avevo paura di fare il minimo errore, paura di diventare l'obiettivo. Ma lui, quel ragazzo con gli occhi pieni di angoscia, non sapeva nemmeno come usarla.

Un istante, e il mio istinto ha parlato. Gli ho strappato la mitra dalle mani e l’ho scaricata su di lui. Una raffica lunga, il rumore che riempie la stanza, che diventa vuoto. Mio padre dietro di me, in silenzio, ma io sapevo che anche lui era dentro, lo vedevo nei suoi occhi. E il ragazzo, il ragazzo con la paura, stava lì, incredulo, mentre lo colpivo con il calcio della mitragliatrice. Non si muoveva, non cercava di difendersi. Era come se volesse morire. E io lo facevo, lo colpivo, lo abbattivo, non so se per pietà o per rabbia.

Poi, in cucina. Lei era sparita, ma non avevo paura per lei. In soggiorno, c'era un altro arabo, seduto, a guardare, con il mitra in mano. Mi guardava, ma non capivo. Lui non era come gli altri. Anche lui piangeva, ma non sapeva cosa fare. Lo sentivo tremare, e avevo pena per lui, e odio allo stesso tempo. Aveva una mitragliatrice in mano, ma non la sapeva usare.

Mi spostavo lento, facendo rumore, sperando che non mi vedesse. Dovevo pensare a cosa fare, ma la paura mi rendeva incapace di azione. Poi, sentivo che era inutile. La polizia non sarebbe arrivata in tempo. La rabbia montava, la frustrazione si faceva più forte.

La casa diventava un campo di battaglia, e noi eravamo prigionieri in attesa che tutto finisse. L’unico pensiero era: "Quando finirà? Quando sarà finita questa follia?" E le parole non servivano, i gesti non avevano più senso. La polizia non sarebbe mai arrivata, e nel mentre loro, quei ragazzi, avrebbero fatto qualcosa. Dovevo reagire, ma non sapevo come.

E quando tutto sembrava finito, capivo che non lo era. Dovevo fare qualcosa prima che fosse troppo tardi. Dovevo agire. Ma il dubbio, l’incertezza, mi rendevano solo più fragile. Così come lui, il ragazzo con la mitra, che piangeva e tremava, come me, in quel buio, in quella notte che non finiva mai.

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