Il bisturi scivolò nella luce tremolante della lampada alogena, e il mio sguardo incontrò il tuo. Eravamo allo stremo, con le mani che puzzavano di lattice economico e sudore misto al sangue altrui. Sul tavolo operatorio low-cost, il corpo della mia paziente giaceva scomposto, come un puzzle mal riuscito che cercavamo di ricomporre con colla e disperazione. Avevamo finito il silicone già da un'ora, ma il cliente aveva pagato in contanti – cinquanta euro e un biglietto della lotteria –, quindi dovevamo arrangiarci.
Hai riso quando ho tirato fuori il tubetto di silicone per finestre che avevo preso al discount. "Ti ricordi quando usavamo solo siringhe di seconda mano?", hai detto, sorridendo con quell'aria di chi non ha più niente da perdere. Io ho annuito, affondando l'ago in un seno che era poco più di un sacchetto vuoto. La mia paziente, mezza sedata e mezza ubriaca, ha gemito qualcosa come "fate che sembri Pamela Anderson, non vi chiedo altro".
Nel frattempo, tu trafficavi sulla tua, un mucchietto d’ossa con l’espressione di chi non ha mai amato nessuno, nemmeno sé stessa. Hai usato del filo da pesca per cucire una cicatrice lunga come la Route 66, e quando ti si è spezzato il filo, hai bestemmiato sottovoce, come facevi ai tempi di Casablanca, quando operavamo dentro una lavanderia industriale per evitare i controlli sanitari.
Il tempo stringeva. Il concorso era l’indomani, e queste due creature – un tempo vittime della gravità, del metabolismo e di troppe serate con il cibo a domicilio – dovevano trasformarsi in dee. Ma la pressione era tanta. Tu hai preso un sorso da quella bottiglia di whisky scadente che tenevi accanto al disinfettante. "Questo è il nostro capolavoro," hai detto. "O vinciamo, o ci ammazzano."
Alla fine ce l’abbiamo fatta. Due strafighe da paura. Gli zigomi appuntiti come coltelli, le labbra così piene che sembravano esplodere a ogni parola. La mia aveva un seno che sembrava fatto con due palloncini da festa, ma a bassa risoluzione. La tua, beh, sembrava un incrocio tra una modella russa e un alieno dei film anni ’50. Perfetto.
E poi il gran giorno: Miss Mondo. Una folla urlante, flash ovunque, e noi nascosti in fondo alla sala, vestiti di nero, le occhiaie profonde come canyon, con ancora addosso l’odore del disinfettante e dell’insuccesso. "Le abbiamo fatte noi," hai sussurrato con orgoglio mentre le nostre creature sfilavano sulla passerella, attirando sguardi di lussuria e invidia.
Ma poi… il colpo di scena. Vince lui, il travestito. Una visione eterea di paillettes e perfezione chirurgica. Ci ha guardati, sorridendo appena, e ha fatto un gesto come per dire "grazie". È stato lì che abbiamo capito: era lui. Il nostro primo cliente. Quello che avevi convinto a lasciarti il suo… pezzo d’anatomia in cambio di un lavoro fatto a metà prezzo.
"Non ci credo," hai detto, scuotendo la testa. Ma non c’era tempo per recriminare. Le nostre strafighe avevano fame, e noi anche. Le abbiamo portate a cena in un fast food da quattro soldi, a brindare con Coca-Cola e patatine.
Tutto sembrava perfetto, fino a mezzanotte. Stava per scoccare l’ora magica, e sapevamo entrambi cosa significava. "Muoviti!" hai urlato, trascinando la tua paziente giù per la strada, mentre io cercavo di infilare la mia in un taxi. Ma troppo tardi. All’angolo del marciapiede, la tua ha perso una tetta. Letteralmente. È rotolata sull’asfalto come una palla da bowling, finendo sotto il piede di un passante.
Abbiamo passato il resto della notte a cercare una soluzione. Tu, con quella maledetta tetta in mano, cercavi di convincere la tua paziente che era tutto normale. Io rovistavo in un cassonetto per trovare qualcosa che somigliasse a un'imbottitura decente. Alla fine, abbiamo usato una spugna da cucina e dello scotch da imballaggio.
Mentre lei ci urlava contro, noi abbiamo riso. Riso fino a non respirare più. Forse per il whisky, forse per la stanchezza, o forse perché sapevamo che, in fondo, eravamo già miliardari.
E poi arrivò la mezzanotte.
Eravamo lì, sudati, distrutti, e già sul punto di crollare, quando accadde l’impensabile. Prima un lieve tremore, poi un suono sordo, come una corda di violino che si spezza. La tua strafiga, quella con lo zigomo scolpito e la camminata da pantera, cominciò a scuotersi come un aspirapolvere difettoso. "Sta succedendo qualcosa," hai detto, fissandola con gli occhi sbarrati.
Ero troppo occupato a tenere insieme il mio "capolavoro", che stava letteralmente perdendo un gluteo, ma poi ho sentito il primo grido. La tua paziente, in piedi al centro della stanza, cominciò a cambiare. Le curve sinuose si appiattirono, i capelli perfettamente fissati con la lacca caddero in ciocche sintetiche sul pavimento. Ma la cosa più inquietante, quella che ci fece cadere le mascelle, accadde al centro della scena: da sotto la minigonna attillata emerse… qualcosa.
Un’ombra lunga, carnosa, eppure regale, quasi ipnotica. Per un istante nessuno disse niente. Il tempo sembrò rallentare mentre quel qualcosa si liberava, oscillando lentamente come il pendolo di un orologio. Un travestito, sì, ma non uno qualsiasi: un travestito superdotato, con un’aria di sfida e uno sguardo che diceva “avete fatto un casino, ma vi perdono”.
La mia strafiga urlò e svenne sul colpo. Io rimasi a fissare quella scena, senza parole, mentre il tuo "capolavoro" – o meglio, il nostro nuovo Frankenstein – si voltava verso di te con un sorriso complice. "Pensavi di avermi trasformata in una principessa, eh?" disse con una voce che sembrava un mix tra Luciano Pavarotti e Cher. "Beh, sorpresa!" E con un gesto teatrale sollevò la gonna, rivelando al mondo la sua “virtù” più sorprendente.
Ci fu un momento di panico generale. Tu cercavi di coprirla con un tovagliolo, io stavo ancora litigando con il silicone che colava dal seno della mia paziente ormai devastata. Lei invece, il travestito-principessa-superdotato, cominciò a ridere, una risata profonda e contagiosa che rimbalzava sulle pareti come un’eco maledetta. "Ragazzi," disse, "avete fatto un lavoro fantastico, ma l’essenza non si cambia."
A quel punto, non c’era altro da fare. Ci siamo guardati negli occhi, esausti e sconfitti, e poi abbiamo fatto l’unica cosa sensata: l’abbiamo invitata a unirsi a noi per una pizza. Lei ha accettato, ovviamente, e ci ha raccontato storie del passato, storie che ci hanno fatto capire che, per quanto cerchi di cambiare l’apparenza, l’anima rimane sempre quella.
E così, abbiamo passato la notte a ridere e brindare. Con una tetta in meno, con la dignità a pezzi, e con un amico travestito superdotato al nostro fianco. Perché, alla fine, a mezzanotte o no, quello che conta davvero è che siamo tutti un po’ Frankenstein, ma almeno siamo Frankenstein con stile.
Il principe, con la fronte imperlata di sudore e le mani ancora sporche di panna e crema chantilly, fissò il calco improvvisato. Era una replica piuttosto fedele, considerando che era stato realizzato in fretta e furia con una fetta di torta nuziale avanzata e una buona dose di disperazione. La "magica fava" era una leggenda in tutto il regno, ma ora il principe sapeva che non era solo un mito. E lui, con il suo senso del dovere e un pizzico di follia, decise che avrebbe ritrovato quella “mazza perduta”.
Il giorno dopo, si mise in marcia con il calco della fava in una mano e un centimetro da sarto nell'altra, pronto a compiere il suo destino. Era uno spettacolo surreale: un uomo in armatura lucida, su un cavallo stanco, che bussava alle porte delle case del regno con un’espressione serissima. Ogni volta ripeteva lo stesso discorso:
"Buongiorno, sono il principe. Mi scuso per l'intrusione, ma sto cercando di risolvere un mistero di vitale importanza. Potrei… ehm… confrontare questo facsimile con la vostra eventuale dotazione?"
La reazione variava da casa a casa. Alcuni risero fino alle lacrime, altri lo cacciarono a calci, e alcuni, stranamente curiosi, accettarono la misurazione con un misto di imbarazzo e orgoglio. Ma nessuno, nessuno, si avvicinava alla magnificenza della fava magica.
Le settimane passarono, e il principe cominciò a dubitare di sé stesso. La sua missione sembrava impossibile. Era davvero convinto di poter ritrovare quella… ehm… mazza leggendaria? E poi, un giorno, al tramonto, bussò a una casa che sembrava normale come tutte le altre.
Ad aprire la porta fu un uomo imponente, con un sorriso enigmatico e un’aura di mistero. "Avanti, principe," disse, senza che ci fosse bisogno di spiegazioni. "Stai cercando qualcosa, vero?"
Con mani tremanti, il principe estrasse il calco di torta ormai indurito. L’uomo lo osservò con attenzione, poi annuì lentamente. "Aspetta qui."
Sparì nella stanza accanto, e quando tornò, lo fece con un sorriso soddisfatto e una presenza che riempiva tutta la stanza. Il principe rimase senza parole. Era lui. La leggenda vivente. La fava originale. La mazza perduta del regno.
Il principe prese il centimetro con mani sudate, ma si fermò. Non serviva misurare. Sapeva già la verità. "Sei tu," disse con un misto di ammirazione e terrore.
L'uomo annuì e si accarezzò il mento. "E ora, mio caro principe, cosa intendi fare con questa scoperta?"
E lì il principe capì che non importava quanto grande fosse la mazza: ciò che contava era il viaggio, le risate, le porte sbattute in faccia, e i momenti assurdi che aveva vissuto per arrivare lì. Rimise il calco nella bisaccia, salutò con un inchino, e si avviò verso il tramonto, deciso a raccontare a tutti la sua storia. Perché, in fondo, ogni regno ha bisogno di una leggenda… e questa era decisamente indimenticabile.
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